III.

Carducci politico

Sono assai recenti due interpretazioni della posizione politica del Carducci accomunate dall’intento di metterne in rilievo gli elementi piú costanti anche nei noti mutamenti e di giustificare storicamente questi ultimi e la loro ispirazione a suo modo progressiva nelle concrete possibilità della situazione difficile e complessa del secondo Ottocento italiano.

Paolo Alatri, in Carducci giacobino[1], tendeva soprattutto a precisare la posizione carducciana del periodo di Giambi ed Epodi nell’ambito di un giacobinismo violentemente repubblicano e a veder poi anche nell’abbandono di tale posizione con la celebre conversione del ’78 (ode alla regina e adesione alla monarchia) gli aspetti progressivi dell’ideale unitario, della ferma polemica contro il Vaticano nella collaborazione del Carducci, piú che alla affermazione della monarchia in sé e per sé, alla strutturazione della nuova nazione che stentava a diventare nazione-stato. Sicché anche l’atteggiamento del Carducci monarchico sarebbe da valutare alla luce delle particolari esigenze italiane dell’ultimo trentennio del secolo, evitando comunque la tentazione di un paragone di quell’atteggiamento con nostre attuali condizioni ed esigenze.

Anche Luigi Russo (in una recensione all’Alatri ristampata in Carducci senza retorica[2], e in vari punti di quel volume) insisteva sul rilievo centrale di una continuità effettiva degli atteggiamenti politici carducciani e del sostanziale spirito progressivo che li animava, capovolgendo però il repubblicanesimo di fondo di cui parlava l’Alatri in una costante monarchico-costituzionale che unificherebbe il cantore monarchico del ’59-60 e quello dal ’78 in poi e conferirebbe al periodo di Giambi ed Epodi (e al precedente periodo di Levia Gravia teso da vaghi, irrequieti fermenti sociali ed anarcoidi presto dissolti) un valore limitato, poco profondo, di ribellismo «populistico» piú che giacobino, e di repubblicanesimo letterario facilmente abbandonato quando la monarchia – eliminato il grosso punto di dissenso della Roma pontificia – si rivelò al Carducci come l’unico strumento adatto per affermare concretamente il suo fondamentale ideale unitario, la sua aspirazione ad un’Italia forte, indipendente, statalmente e nazionalmente compatta, legalitariamente progressiva.

Interpretazioni cui si possono aggiungere, in questo sforzo di una spiegazione storica della posizione politica carducciana entro precise condizioni dell’epoca, i numerosi e validi rilievi dello Chabod nel primo volume della sua Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896[3], su cui ritorneremo piú avanti quanto alla delicata precisazione della «romanità» e del nazionalismo carducciano. Rilievi che soprattutto contribuivano a far meglio comprendere la piú tarda evoluzione carducciana in rapporto con gli atteggiamenti del gruppo crispino nel suo particolare sviluppo del tema risorgimentale e mazziniano dell’unità in una politica di grandezza nazionale che, pur non accettando l’ideale di una sistemazione conservatrice europea, perdeva di fatto l’afflato rivoluzionario mazziniano.

A questi spunti, interpretazioni e discussioni, viene ora ad aggiungersi un saggio di Mario Vinciguerra, Carducci uomo politico[4]. Questo interessante saggio, mentre ribadisce – piú vicino al Russo che all’Alatri – l’importanza centrale dell’ideale unitario carducciano e la provvisorietà e incertezza della giovanile posizione repubblicano-mazziniana, porta nuove e lucide definizioni della «conversione» monarchica e crispina spiegandone le concrete ragioni e accennando ai pericolosi aspetti di quell’unitarismo nazionale quanto allo sviluppo democratico e liberale. Ed efficacemente lumeggia, per tutto lo svolgimento politico del Carducci e specie per le sue fasi piú tarde, l’importanza della sua carriera massonica, meno precedentemente calcolata in sede storico-politica e rimasta semmai documentata, fra apologia e polemica, nei lontani volumi di Ulisse Bacci e di Alessandro Luzio[5].

Il volumetto del Vinciguerra è reso piú vivo e interessante anche da una introduzione che rivede in termini di esperienza personale giovanile la presenza del Carducci negli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, nell’amore e nelle reazioni dei contemporanei. Mentre piú discutibile e marginale appare un capitolo dedicato alla «visione storica» del Carducci, di cui lo studioso ripercorre lo svolgimento dall’Inno a Satana «abbozzo di filosofia della storia sotto il segno di un paganesimo di ispirazione epicurea», vivo ancora in Alle fonti del Clitumno, fino al presentarsi del macchinoso motivo della «nemesi storica». Visione storica su cui si basano molte poesie carducciane, ma a cui il Vinciguerra oppone la vera «storia poetica» carducciana contenuta in germe nella parte centrale del Canto dell’amore e con cui il poeta supererebbe l’ideologia dando alla rievocazione storica il carattere di una vera e propria «saga» della vita italiana dalla leggenda di Teodorico all’epopea garibaldina.

Ci sarebbe assai da discutere sulla precisione di tale formulazione quanto al rapporto esistente fra l’ideologia (certo priva di «solidi fondamenti», come un po’ tutto il «pensiero» del Carducci incerto fra posizioni illuministiche e romantiche e poussées irrequiete e poco consistenti verso il positivismo e poi verso esigenze di confuso spiritualismo) e la poesia, sia quanto alla nascita e alla natura della «storia poetica» carducciana, piú viva comunque entro motivi epico-fiabeschi (con acme in Faida di comune e poi in Comune rustico) che non in certo impegno celebrativo piú tardo, quando, specie nelle Barbare, il pericolo retorico par superato, piú che dal senso attivo della storia, dalla contemplazione dolente e grave del passato eroico e perduto. Ma qui mi interessa considerare la parte del volumetto che piú direttamente aderisce al titolo e che piú indiscutibilmente può portare chiarimenti per una augurabile ricostruzione integrale e dinamica della personalità e attività carducciana entro la storia non solo letteraria del suo tempo.

Da tale punto di vista le pagine del Vinciguerra, agili ed efficaci, aiutano a meglio storicizzare il percorso della esperienza politica del Carducci in rapporto a suoi ideali centrali, a momenti precisi della storia postrisorgimentale, all’azione e alle tendenze di determinati gruppi politici che a un certo punto aspirarono e, in parte, riuscirono a costituirsi come gruppi dirigenti della nuova nazione-stato.

Tutta la posizione politica carducciana ne esce ancor meglio chiarita e concretata, motivata nelle sue esigenze personali, ma anche meno solitaria, piú saldamente collegata con precisi movimenti di opinione e di azione politica.

Come del resto poteva apparire chiaro, anche se frammentariamente, per quanto riguarda il rapporto del Carducci con la Massoneria italiana, già dalla lettura dell’epistolario di anni tardi in alcune lettere ad Adriano Lemmi, gran Maestro dal 1885 in poi, in cui quel rapporto, già prima dei chiarimenti vinciguerriani, si presentava strettissimo a qualunque lettore piú attento.

Ricorderò in proposito almeno, fra le molte lettere con cui il Carducci si rallegra di approvazioni per le sue stesse composizioni poetiche di carattere politico e civile, o trova comunanza di opinioni politiche e ideologiche con il Lemmi, quella in cui egli esprime la sua soddisfazione per il consenso dato dal Lemmi al suo rifiuto di aderire al comitato per la pace[6]: «La vostra lettera mi rallegra, conforta ed onora. Sono superbo di trovarmi d’accordo con voi»; o quella per l’ode Piemonte[7]: «Voi mi significate la vostra approvazione in modo che io ne vado superbo». Dove l’approvazione autorevole del Lemmi appare molto significativa se si mettono in relazione il tentativo carducciano di una «visione» conciliatrice degli eroi del Risorgimento con Carlo Alberto e la politica del Lemmi in sostegno della monarchia del 20 settembre e dell’azione del Crispi monarchico e vecchio mazziniano e garibaldino.

O si ricordi, come utile indizio di precisazione su di un punto a volte discusso (il preteso riavvicinamento del Carducci alla fede tradizionale), la lettera del 29 settembre 1894[8] in cui il Carducci, confrontando una allocuzione del Lemmi con il proprio discorso che avrebbe pronunciato a San Marino il giorno seguente, si dichiara d’accordo sulla accentuazione deistico-spiritualistica del Lemmi e aggiunge: «La Chiesa cattolica poi si batte bene specialmente con Dio».

Una frase e una consonanza che precisa in maniera inequivoca come una certa evoluzione spiritualistica del vecchio Carducci (su cui sarebbe molto da dire anche in sede poetica quanto a lievito di fantasia e di intimità e a pericolo di «vaporosità» e di eloquenza) vada rettamente intesa entro uno sviluppo della sua vaga religiosità che, se si staccava dalle posizioni dell’Inno a Satana, era tutt’altro che in contrasto con la sua professione massonica e con l’impostazione data dal Lemmi alla ideologia massonica italiana e alla lotta anticlericale. Ed è cosí da intendere anche la posizione della Chiesa di Polenta che, mentre attacca ancora la religione semitico-cristiana, tende ad operare una conciliazione di elementi spiritualistici generali con forme tradizionali sulla base di una vaga religiosità massonica.

La storia di questi rapporti, importanti fuori di ogni impostazione apologetica o polemica, proprio per una storicizzazione precisa del Carducci, trova, come dicevo, nuovo chiarimento generale nel saggio del Vinciguerra, che, d’altra parte, entro le linee di questa storia incarna le ragioni esterne ed interne dello svolgimento carducciano dando alla sua carriera massonica il valore storico di una mediazione fra esigenze personali e sollecitazione di avvenimenti e di tendenze politiche accostate soprattutto entro la vasta e complessa dinamica di una associazione che raccoglieva indubbiamente gran parte degli uomini preminenti dell’epoca postrisorgimentale.

Cosí l’atteggiamento del Carducci nei primi anni della sua vita bolognese, quando il rammarico per la mancata partecipazione all’azione risorgimentale, l’irrequietezza interna, il bisogno di una fede sicura e di un impegno nella realtà del proprio tempo (e di una poesia piú moderna e piú sua) trovarono un primo sfogo nell’attività politica e nella poetica dell’efficacia giambica, viene a configurarsi piú concretamente entro il rapporto stimolante con quei gruppi repubblicani e mazziniani romagnoli che della ricostituita Massoneria italiana rappresentavano in quel periodo le punte piú avanzate e combattive, specie nell’urgenza del completamento del moto unitario italiano e della soluzione armata della questione romana. Entro quella ricca dinamica di tendenze (la Massoneria raccoglieva allora cavourriani come il Farina, uomini della sinistra moderata come il De Sanctis, membri del Partito d’azione come Cordova e Crispi), il Carducci si portò d’impeto sulle posizioni estreme partecipando anche a certe interne polemiche ideologiche e politiche: come quella in cui egli si opponeva alla destra massonica moderata, monarchica ed hegeliana dei De Meis e Fiorentino in nome di una combattiva democrazia, ma anche di un confuso positivismo e materialismo che rendeva poi difficile e precaria la sua vicinanza ai mazziniani di «Dio e popolo» e ambiguo il suo culto per Mazzini. Donde le polemiche sataniche col Filopanti e il progressivo avvicinamento a quegli elementi garibaldini che, nel periodo di ascesa della sinistra al potere (periodo di lotte il cui ciclo, secondo il Vinciguerra, «si apre e chiude in Massoneria»), venivano abbandonando gli ideali repubblicani e affermando un radicalismo monarchico erede del garibaldinismo costituzionale, piú adatto alle reali condizioni di fatto della realtà politica e parlamentare italiana.

Svaniti gli impeti del periodo di Giambi ed Epodi (vivo soprattutto, anche da un punto di vista eloquente-poetico, fra il ’67 e ’70, fra Mentana e Porta Pia), calata una tensione combattiva che, come dice il Vinciguerra, «non poteva durare e non durò», si assiste cosí al lento slittare del Carducci sul piano costituzionale-legalitario, prima vicino al Cairoli, poi, dopo il suo insuccesso, vicino al Crispi, soprattutto sulla base della convinzione che l’unità (ideale costante del Carducci, anzi, com’egli disse, «l’amore, la fede, la religione della sua vita») e la difesa dal Vaticano fossero ormai realizzabili solo intorno alla monarchia del 20 settembre e ad un governo forte, capace persino di iniziative guerriere per compiere interamente il processo unificativo e segnare «con la spada i naturali confini della piú gran nazione latina», affermarne la grandezza e la potenza, assicurarle il posto che doveva occupare in Europa.

Motivi che, insieme alla crescente sfiducia e antipatia verso il parlamentarismo e al crescente fascino garibaldino del «dittatore», il Vinciguerra ben delinea, specie nel passaggio fra le speranze in Cairoli e nelle sue soluzioni piú «idilliche» e parlamentari e la delusione, e la crescente fiducia nel Crispi:

Da allora in poi in Carducci cominciò a vagare pel sangue un umore pernicioso per chi vive in democrazia parlamentare e l’accetta e la riconosce come un regime che offre, malgrado tutto, gli elementi primordiali per sviluppare civilmente i rapporti sociali. Cominciò a ribollirgli dentro un’uggia stizzosa per i partiti politici, per la vita parlamentare, di cui si fermò iroso a deplorare i lati deficienti, senza soffermarsi su quelli costruttivi – e lo Stato italiano si andava costruendo dalle fondamenta da appena un ventennio. La figura di Garibaldi ripassava piú spesso folgorando davanti all’accesa fantasia, e pareva accennargli il rimedio estremo dei regimi pericolanti: la somma delle responsabilità affidata per qualche tempo direttamente dal popolo a uno o a pochissimi eccellenti cittadini. La sua recente fiducia nel valore e nell’avvenire della monarchia gli si accresceva e concretava nell’accarezzare l’idea che una sua iniziativa guerriera rendesse possibile il raggiungimento dei confini ancora vietati. «Credo di rendere al re d’Italia il massimo onore – diceva agli elettori di Pisa nel 1886 – quando io lo veggo in fantasia sull’Alpi Giulie a cavallo, capo del suo popolo, segnare con la spada i naturali confini della piú gran nazione latina»[9].

Cosí, pur fra incertezze e indugi, tutta l’evoluzione politica del Carducci viene meglio spiegata sin dalla celebre conversione del ’78[10] fra un movimento interno del Carducci e la sua consonanza con quegli uomini della sinistra che andavano – pur nelle diverse frazioni – sempre piú stringendosi alla monarchia (e alcuni dei quali trovaron modo di incoraggiare il poeta all’incontro bolognese con i sovrani). E ancor meglio si inquadra l’adesione del Carducci al Crispi nel convergere delle sue maturate convinzioni con l’atteggiamento di un settore della sinistra e della Massoneria italiana, o almeno, come precisa il Vinciguerra, «con la parte preminente della Massoneria, quella cioè che ebbe in mano la suprema direzione, anche se osteggiata da una nutrita e battagliera minoranza», proprio negli anni in cui la Massoneria, per opera del Lemmi, si inseriva piú fortemente nella formazione del nuovo stato e appoggiava il Crispi, suo autorevole membro. Sí che il poeta, ormai lontano dalle posizioni piú spinte e ribelli del periodo di Giambi ed Epodi, poteva coerentemente collaborare in maniera piú attiva con la direzione dell’associazione «ascendendo alle cariche piú elevate» (membro della Loggia Propaganda e del Consiglio dei Trentatré), cariche cui lo sollevò il Lemmi che, suo amico e sincero ammiratore, aveva anche ben capito il valore della collaborazione alla propria politica da parte della maggiore personalità culturale e poetica del tempo.

Da allora in poi, malgrado dissensi e amarezze circa la triplice alleanza e la stessa guerra africana, il Carducci rimase fedele alla politica del Crispi[11] e all’azione del Lemmi, alla cui luce meglio si chiarisce, come dicevo, la figura del poeta ufficiale della monarchia del 20 settembre, il «dovere» delle cosiddette «grandi» odi del ’90-95: anche se ciò non riduce l’impegno persuaso dell’uomo e, d’altra parte, la radice costituzionale di oratoria che ne venne comunque stimolata e assecondata.

A questo punto, al di là del disegno del Vinciguerra e della integrazione di osservazioni e documentazioni che io vi ho fatto, mi pare augurabile una ulteriore ripresa di questo disegno e dei suoi spunti (nonché degli elementi di discussione offerti specie dal Russo e dallo Chabod) in una piú generale e particolareggiata articolazione che dovrebbe poi piú chiaramente precisare, specie per il periodo dopo la «conversione» monarchica, sia il significato che ebbe l’atteggiamento carducciano in sé e per sé e nella formazione etico-politica delle generazioni di fine Ottocento e di primo Novecento, sia il rapporto che si può stabilire fra atteggiamento politico e poesia, specie nel tardo sviluppo delle Barbare e di Rime e ritmi.

Quanto al primo punto (di ovvia importanza nella storia della educazione etico-politica italiana in anni cosí interessanti nella nostra formazione nazionale) si dovrà certo rilevare positivamente il motivo dell’unità nazionale e laica: motivo risorgimentale ed esigenza politicamente concreta negli anni della difficile costruzione della «nazione-stato» la cui esistenza poteva apparire seriamente minacciata sia da forze antirisorgimentali nuovamente attive, sia da un dinamismo eccessivo e particolaristico di forze sociali ancora scarsamente autocoscienti. Ma si dovrà anche chiaramente considerare (contro giustificazioni totalmente positive) che la costante unitaria venne nel Carducci progressivamente appesantendosi in una posizione di preminenza del motivo nazionale sempre meno alimentato di spirito democratico e liberale, sempre meno sensibile a istanze sociali popolari.

Lo Chabod parlando dell’idea di Roma negli anni seguenti all’unità ha cautamente precisato: «il potente senso nazionale del Carducci non era ancora il nazionalismo di piú tardo conio; ed egli, in quanto uomo del Risorgimento, vedeva l’Italia nel mondo, non contro il mondo, e amava eroi e glorie di altre nazioni, esaltando soprattutto la Francia dell’89; e la grandezza d’Italia era, anzitutto, per lui, come per gli uomini del Risorgimento, altezza di sentire civico dei suoi cittadini. Ma le immagini corpose della sua romanità non erano piú soltanto Risorgimento e piuttosto segnavano il primo trapasso dalla romanità mistica del Mazzini alla romanità politica, materialmente concreta, tanto cara piú tardi; e poiché era sovente romanità di sfarzo, poté poi avvenire che, per molti di quelli che vennero dopo di lui e già si nutrivano di altri ideali, i suoi appelli alla gloria e potenza d’Italia in Roma inducessero piuttosto a chiudere l’Italia in sé e servissero da motivo nazionalistico»[12].

Ma, a ben guardare, e a tener conto soprattutto delle odi di Rime e ritmi e di tanti passi dell’epistolario e di prose tarde, mi pare che si debba andare ancora piú in là dell’impressione di una tutta illecita deduzione nazionalistica posteriore, di una utilizzazione tutta arbitraria di testi diversamente orientati.

L’ideale dell’unità, dell’indipendenza effettiva, della potenza italiana necessaria contro l’ostilità delle altre maggiori potenze (da considerar dunque in una prospettiva storica molto adiuvante) diveniva sempre piú esclusivo nella mente e nell’animo del Carducci e gli ideali giovanili di «giustizia e libertà» (che pur seguitavano ancora a risuonare a lor modo specie nelle Barbare) divenivano sempre piú fievoli attributi del primo, che si faceva, anche nelle poesie, sempre piú rumoroso e concitato. Sí «l’Italia forte, rispettata, alta, con la libertà», egli diceva al Lemmi proprio spiegando la sua fedeltà al Crispi[13], ma sull’ultimo punto l’accento batteva sempre meno intensamente, come si può dimostrare sia nel pericoloso atteggiamento antiparlamentare, sia nell’insofferenza dei partiti (sino a sognare una associazione superpartitica dal dubbio nome «L’Italia italiana»), sia in tanti atteggiamenti particolari sulla cui portata antiliberale e antidemocratica è inutile forse insistere. Come l’intolleranza ad ogni critica all’esercito (fino alla invocazione delle «legnate», e in un caso in cui lo stesso re Umberto si era comportato con maggiore prudenza), o le invettive e le minacce contro le organizzazioni socialiste ree di tradimento della patria e le espressioni di sostanziale disprezzo per le plebi. Si veda, ad esempio, la lettera ai socialisti di Bologna del 1890[14]; nella commemorazione di Garibaldi, l’invettiva contro i partiti[15]; nel discorso al senato del 17 dicembre 1892[16], il passo riguardante le plebi antirisorgimentali e il bisogno primo di opporre «alla ostinata torbida incertezza d’istinti sovvertitori che tutto vorrebbero abbattere e nulla sanno rifare», al «pericolo e alla minaccia imminente» delle plebi da alimentare e trasformare o formare in popolo, l’educazione nazionale e classicista della borghesia.

E se per quel che riguarda la guerra africana il Carducci fu contrario a quell’impresa anche per ragioni di antipatia per la sopraffazione imperialistica, ancor piú lo fu per il timore che essa sviasse gli italiani dal problema dell’irredentismo e della attiva difesa contro le potenze ostili. E questa difesa a sua volta sfociava in forme di xenofobia (dopo il Ça ira, molte sono le aperte dichiarazioni di sdegno e persin odio antifrancese[17]), di militarismo, di scherno per le soluzioni pacifiche corrispondente in politica interna al grido piú volte lanciato di «Italia anzitutto e sopra tutto» e nella ripresa megalomane dell’oraziano: «O sole, tu non possa veder mai nulla piú grande e piú bello d’Italia e di Roma!», con cui, già nell’86, egli concludeva il discorso agli elettori di Pisa[18].

Insomma, se va tenuta ben presente la particolare situazione storica nella quale il Carducci collaborava al rafforzamento unitario della nazione-stato, non si deve tacere che, come questo implicava, nella direzione impressagli dal gruppo dirigente crispino, particolari pericoli autoritari, illiberali e antisociali, nazionalistici, opponendo – diversamente dal metodo tanto piú duttile e abile adottato poi da Giolitti – la violenza alle esigenze delle masse che venivan prendendo coscienza della loro forza e del loro significato nella vita della nazione, cosí lo sforzo unitario del Carducci prendeva sempre piú un carattere conservatore e antipopolare, la cui giustificazione tutta positiva porterebbe ad accettare la nota tesi del Panzini, che in un volumetto del ’94 (che il poeta lodava e approvava) rivedeva lo svolgimento carducciano verso un esito nettamente nazionalistico ben consono alle tendenze crescenti nello scrittore romagnolo e al suo successivo sviluppo chiaramente nazionalista e sin fascista[19].

Certo il Carducci era lontano da conclusioni che furono di tempi successivi e privi ormai di ogni autentico legame con lo spirito risorgimentale, ma, guardando alla subordinazione pratica di ogni altro valore all’affermazione dell’unità e della potenza italiana nell’ultimo periodo del Carducci, non si può negare che questi atteggiamenti costituissero un pericoloso avvio a quella infatuazione nazionalistica che già in lui, nella ripresa dell’esigenza unitaria risorgimentale, sacrificava tanti altri elementi del nostro generoso Risorgimento, riduceva la spinta internazionale mazziniana o quella sobria coscienza dei limiti del sentimento nazionale che ebbe il grande educatore Francesco De Sanctis.

Mentre quegli atteggiamenti, traducendosi nelle odi civili di Rime e ritmi, portavano nella nostra letteratura una impostazione oratoria-patriottica, che con i suoi retorici «Salve», con l’orgia delle maiuscole, con gli appelli «Italia Italia», con le visioni scenografiche delle legioni degli spiriti, con le esaltazioni di una Roma incomparabile per splendore e potenza, non sarebbe stata senza legittima efficacia nel gusto di una poesia patriottica cosí insopportabile e diseducativa in sede estetica come pericolosa e diseducativa in campo etico-politico.

E se poi certo Pascoli dell’ultimo periodo e soprattutto D’Annunzio accentuarono questa tendenza porgendo esempi di stile retorico e di costume letterario-civile fino al fascismo, ben al di là delle giustificazioni storiche del periodo della formazione nazionale di un Carducci, a questo pur risale la prima responsabilità di una autorevole dignificazione di una simile impostazione e della figura del poeta vate nazionale che riprendeva i peggiori moduli dell’innografia non foscoliana, ma montiana.

Sicché almeno discutibile mi pare – anche se da studiare molto piú da vicino ed equamente – l’efficacia del Carducci poeta civile e maestro di vita civile-politica (al di là di ciò che egli rappresentò di valido per la serietà del suo lavoro critico e tecnico e della sua piú schietta poesia) sulle generazioni di primo Novecento. Anche qui certo egli dava lezione di coraggio personale, di serietà morale, consolidava motivi pur importanti in quella fase della nostra vita nazionale (il senso dell’unità e del laicismo), ed educava cosí al senso del dovere e del coraggio molti degli uomini che dettero prova delle loro virtú militari, patriottiche e umane nella guerra del ’15-18 (certo in genere piú carducciani che dannunziani), ma altro sarebbe il discorso quanto all’educazione civile nella sua accezione democratica, liberale, internazionale.

E se uomini degnissimi di quelle generazioni pur riconobbero nel Carducci anche un maestro dei valori di «giustizia e libertà», ciò non avvenne se non per un recupero degli impeti piú giovanili e delle posizioni soprattutto di Giambi ed Epodi, al di là dell’ultimo messaggio nazionale e conservatore tanto piú lungamente consistente e vistoso.

Tanto che, perduto il fascino piú vicino di quella forte personalità e cambiata in dissenso la consonanza di gusto piú generale con la sua poesia, gli uomini della mia generazione motivarono la loro educazione antifascista e il loro stesso spirito nazionale e laico su tutt’altri esempi, giungendo magari sino ad una eccessiva aperta accusa del vate crispino e monarchico come primo creatore di molti «slogans» nazionalistici della dittatura. Donde significative discussioni e dissensi fra antifascisti di diverse generazioni, di cui può essere documento assai sintomatico quanto racconta Piero Caleffi a proposito di un colloquio tra Franco Venturi e Piero Calamandrei[20].

D’altra parte mi par chiaro che, senza giungere alla tesi eccessiva del Sapegno[21] che finisce per conglobare, troppo precocemente e massicciamente, in un’unica condanna di involuzione la tarda poesia del Carducci alla luce della sua involuzione politica (non ben misurata poi nelle sue ragioni storiche-personali particolari), anche in sede poetica si debba fortemente insistere sulla distinzione di una evoluzione di poesia che si spinge fin dentro Rime e ritmi sgorgando dall’animo piú segreto e privato del poeta (magari, nell’ultima stagione, in forme rare e sottili, ma pur valide, all’insegna della malinconia e di una grazia mesto-sorridente, allusiva e squisitamente pittorica) e di una involuzione di retorica piú fortemente legata alle posizioni politiche e ideali ricordate: e di una retorica, si badi bene, assai diversa da quella generosa e formatrice, a suo modo stimolatrice di poesia, del periodo giovanile.

Oratoria che va ricollegata, d’altra parte, a quel tardo sviluppo spiritualistico che ebbe una doppia funzione: lievito di intimità e di ripiegamento interiore, di visioni assorte e intimamente suggestive (con acquisti di nuove vibrazioni liriche, di malinconia sospirata e sommessa, di piú segreta forza allusiva e simbolica), e pericolo di vaporosità, di dubbia ripresa di velleità cosmiche che in qualche modo si associano al visionarismo enfatico dell’innografia e della mistica patriottica con le sue «legioni degli spiriti», con i suoi cieli e pantheon d’eroi nazionali.


1 P. Alatri, Carducci giacobino, Palermo 1953.

2 L. Russo, Carducci senza retorica, Bari 1957.

3 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1951.

4 M. Vinciguerra, Carducci uomo politico, Pisa 1957.

5 U. Bacci, Il libro del massone italiano, Roma, 1905; A. Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, Bologna 1924.

6 Ep., XVIII, p. 33 (1° gennaio 1889).

7 Ep., XVIII, p. 228 (27 settembre 1899).

8 Ep., XIX, p. 29.

9 Carducci, uomo politico cit., pp. 43-44.

10 Su cui il Vinciguerra utilizza anche elementi recentemente portati dal volumetto di Aldo Spallicci, L’accapigliatura Carducci-Ghisleri, Roma-Milano-Torino 1956.

11 Fedeltà di cui di nuovo il Vinciguerra sintetizza felicemente la motivazione politica e sentimentale: «fu, insieme con il richiamo delle memorie garibaldine, un atto di dedizione appassionata, di fede indiscussa in un uomo che gli garantiva la difesa, contro insidie interne o esterne, della unità della patria e del regime di separazione fra Stato e Chiesa; e faceva brillare davanti alla sua fantasia di poeta un’Italia prevalente nel concerto europeo».

12 Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 cit., pp. 313-314.

13 Ep., XVIII, p. 42 (2 febbraio 1892).

14 Opere, XXV, pp. 331 ss.

15 Ibid., VII, P. 499.

16 Ibid., XXVIII, pp. 102-104.

17 Ep., XVII, p. 226; XVIII, p. 111.

18 Opere, XXV, p. 38

19 Cfr. C. Varese, Formazione e svolgimento di Alfredo Panzini, in Cultura letteraria contemporanea, Pisa 1951, specie le pp. 85-90.

20 «Il Ponte», ottobre 1956.

21 N. Sapegno, Storia del Carducci cit.